Esce tra un paio di settimane (il 19 ottobre per la precisione) il nuovo disco di una delle artiste contemporanee più amate, ammirate e da taluni puristi criticate quale è Natalie Dessay. Il disco, dal classico titolo didascalico di "Mad scenes", non contiene in realtà nulla di nuovo che il fan della Dessay già non possegga; esso assembla infatti le scene di "follia" che il soprano francese ha inciso lungo la sua carriera ormai ventennale. Qualcuno direbbe quindi operazione meramente commerciale, e in realtà avrebbe ragione a crederlo. Ma quando un disco, che esso sia compilation o prodotto appositamente registrato, contiene materiale di un certo interesse artistico, dal nostro punto di vista è comunque degno di attenzione, comunque di una attenzione maggiore rispetto a prodotti freschi di sala di incisione ma stantii nel contenuto musicale. Detto ciò, il disco presenta un excursus musicale abbastanza eterogeneo che, partendo idealmente dall'opera italiana filtrata attraverso il gusto francese (Lucie), passa in rassegna il grand-opéra, l'operetta e, per chiudere il cerchio il melodramma romantico per antonomasia di Lucia (versione italiana) che, giocoforza, vuol essere il pezzo forte del disco.
Le due versioni di Lucia, oltre all'autocompiacimento della diva, sono funzionali anche alla rappresentazione del percorso artistico di questa cantante e offrono interessanti spunti di confronto più che sul piano musicale su quello meramente interpretativo. La versione francese di questa scena infatti differisce di poco da quella italiana (è più breve e ha la cabaletta trasposta in alto) ma la sensibilità con cui la Dessay affronta le due pagine è profondamente diversa. Se dal vivo la Dessay di oggi propone una Lucia - in italiano - rivoluzionaria e "veristeggiante" (con l'indignazione di molti e l'apprezzamento di molti altri), la sua Lucie francese appariva più moderata e introspettiva, come se al posto di guardare il personaggio attraverso Puccini lo si guardasse attraverso Massenet. In studio questa impressione sembra si sovverta. La versione francese presenta una vocalizzazione poco più sicura di quella italiana, ma quest'ultima possiede una ricchezza di colori e varietà di fraseggi che denotano un maggiore lavoro interpretativo sia legato alla parola e alla psicologia del personaggio sia sul piano strettamente tecnico. Qualcuno noterà più di una "magagna" (colorature non proprio precise, note smorzate e filature ad hoc sugli acuti più pericolosi ecc.) ma non è peccato mortale, almeno secondo noi, se un artista scende a patto con le "rughe" della propria voce anzi, se questi è un artista degno di tale nome, sarà spinto dai suoi limiti verso una maggiore ricerca del colore che, a conti fatti, è il vero discriminante di una interpretazione; è accaduto con la Callas, la Gencer, la Scotto, la Sills, alle quali abbiamo perdonato di tutto sul piano puramente vocalistico, accade ora con la Dessay.
Il lungo recitativo iniziale, seppur ben cantato, offre pochi spunti per far gridare al miracolo ma, in realtà, sembra essere funzionale ad una escalation di tensione che si risolverà solo col mi bemolle nel finale ultimo. Ardon gli incensi infatti è già assai più emozionante, tinto di luci ed ombre, e di una passione ardente eppure quasi sotterranea. Azzeccata pure la scelta di rinunciare al flauto durante la cadenza: la sensazione è che Lucia, sola con le sue visioni, si aggiri attraverso i corridoi del castello che fanno eco ai suoi vaneggiamenti. La parte centrale che conduce alla cabaletta ha invece il famoso urlo in sostituzione di una nota cantata che tanto scandalo ha suscitato fra i filologi. Non è beninteso l'urlo bercio che si è ascoltato al Met, ma è più una terrificante nota afona, meno esteriore nell'effetto scenico ma decisamente più agghiacciante nel drammatico sprofondare del suono in una disfonia cacofonica così non convenzionale. Spargi d'amaro pianto ci appare ora come diretta conseguenza di questo terrore latente, e assume così una atmosfera cupa e schizofrenica assolutamente inedita, con cambi di tempo e di carattere ancora più accentuati. La Lucia della Dessay è una sposina che sguazza in un bagno di sangue in bilico tra coscienza e follia, è quindi qualcosa di stranamente vicino all'Elisabetta del Devereux più che alla Amina belliniana (o forse dovrei dire vicino alla Stuarda, dato che nel recital originale di arie italiane in cui è contenuta tale scena la nostra Dessay dà inaspettatamente una interpretazione convincente e "umanizzante" del personaggio della sfortunata regina). Una lettura affascinante che avvicina i due mondi donizettiani come solo la Sills forse riuscì a fare, con mezzi e sensibilità diversi.
A confronto di tanta tragica grandeur la scena da I Puritani delude un po'. Punto primo perchè la Dessay è più a disagio col cantabile belliniano, scomodamente centrale e, soprattutto, fluido e legatissimo, punto secondo perchè, forse avendo maturato meno il personaggio, non le riesce di uscire dallo stereotipo di fanciulla tradita e ferita che, per amore, perde il senno. Il vero punto forte diventa quindi la cabaletta Vien diletto, di solito un po' "buttata là" anche dalle grandi cantanti che la utilizzano fondamentalmente come pezzo di bravura. Ebbene il pezzo in bocca alla Dessay, che gioca ancora con i tempi e i colori più che con le colorature, diventa una vera e propria "love song" e acquista una dignità espressiva che molte interpreti, concentrate sulle scale e le terzine, relegano nello sfondo. Stesso discorso si potrebbe fare per l'aria dalla Dinorah, questo diventato vero e proprio cavallo di battaglia dei soprani di coloratura, che la eseguono praticamente come esercizio da concerto. La Dessay invece, oltre a riaprire un bellissimo cantabile centrale di solito omesso, stupisce per la sua versatilità ritmica (sentire come gioca con le pause) e coloristica più che per il virtuosismo esteriore, qui pure straordinario visto che l'aria è incisa ai tempi d'oro quando la voce era ancora capace di uno strabiliante e inaspettato La bemolle (sì, ho detto LA bemolle!!) sovracuto. Attraverso una illuminazione cangiante delle note emesse ci sembra davvero che Dinorah stia giocando con la sua ombra come faceva Peter Pan, perso anche lui nel suo mondo di spensierata fanciullezza. E così persino il "vecchio e manierato" Mayerbeer riesce idealmente ad avvicinarsi alla verve modernissima dello scatenato Bernstein del Candide, in un ideale ponte costruito attorno alla filosofia leibniziana del "vivere nel migliore dei mondi possibili". Poco da dire su questo pezzo, semplicemente uno dei cavalli di battaglia del soprano francese. E più che per la capacità vocale la Dessay è memorabile per quella strettamente attoriale, che emerge prepotente anche solo in audio attraverso una comicità spontanea e surreale che riesce a battere molte delle interpretazioni storiche che sanno di costruito. La Dessay carica dove serve, è smorfiosa, vanitosa, esagerata, canta, parla, piagnucola, urla come la caricatura di una diva svampita, come una Manon sotto anfetamine, dimostrandosi oltre che cantante di razza una grande caratterista, esperta nell'uso della voce non solo in senso belcantistico ma anche teatrale. Oltre a dimostrare un'autoironia che, diciamocelo, è spesso estranea a molte sue colleghe.
Ma il vero miracolo avviene con una pagina di solito sottovalutata. L'Amleto di Thomas è tutto sommato un'opera prolissa e spesso molto di mestiere, la cui unica pagina davvero celebre è, appunto, la pazzia di Ofelia, divenuta nel tempo cavallo di battaglia dei soprani leggeri che affrontano il repertorio francese. Già la Callas, nel suo Mad Scenes di ormai 50 anni fa, aveva provato a ridare dignità a questo pezzo attraverso una lettura meno banalizzante delle fioriture e una cura maggiore nell'accento delle parti cantabili. Alla Callas dell'epoca però mancava ancora il gusto francese, nonchè la confidenza con un personaggio a lei estraneo che inevitabilmente finisce per essere più figlio illegittimo di Lucia che parto della penna di Shakespeare. Un traguardo certo enorme per l'epoca (e contestualmente rivoluzionario) superato dalla lettura mozzafiato della Dessay, che qui può rendere ai massimi livelli in un repertorio dove si trova pienamente a suo agio. Il tempo dilatatissimo conferisce alla pagina un carattere sospeso e onirico che al tempo stesso permette alla voce della Dessay di lavorare sui dettagli più piccoli dell'espressione come mai nessuna aveva fatto in passato su quest'aria. Si ascoltino in particolare l'arioso iniziale e la scena della "canzone", triste e già satura di morte come fu la canzone del salce per Desdemona in un ipotetico, ma neanche tanto, parallelo tra le due eroine shakespeariane. In mezzo le esplosioni improvvise di virtuosismi e puntature acute, affrontate in maniera quasi espressionista, talvolta laceranti nella loro violenza e ora totalmente funzionali al piano drammaturgico. Ma se Lucia in preda alla follia diveniva carnefice, Desdemona diventava vittima della follia altrui, Ofelia è vittima e carnefice di se stessa, archetipo dalla follia suicida che si perpetua attraverso una forma di rituale autolesionistico che, aldilà della metafora scenica, appare ancora attuale se considerata su un piano puramente psicologico. E al grido di "per te io muoio" Ofelia immola la sua anima in maniera irrazionale ma drammaticamente conscia, sacrificio che la Dessay esprime in maniera emozionante attraverso un'interpretazione profonda e sentita di una modernità sconvolgente.
Zizzu
NATALIE DESSAY - Mad Scenes : Scènes de folie
(Virgin Classics - 2009)
DONIZETTI : Lucie de Lammermoor (Lucie)
BELLINI : I Puritani (Elvira)
THOMAS : Hamlet (Ophélie)
BERNSTEIN : Candide (Cunégonde)
MEYERBEER : Le Pardon de Ploërmel (Dinorah)
DONIZETTI : Lucia di Lammermoor (Lucia)
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