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mercoledì 21 ottobre 2009

RECENSIONE: Renée Fleming - Verismo


Ci sembrava doveroso spendere due parole sull'ennesimo recital in studio di una delle dive più "dive" degli ultimi vent'anni, l'americana Renée Fleming. La Fleming, nonostante abbia una suadente e pastosa voce lirica con la quale "poco si può fare" (così penserebbe qualcuno), si è lanciata non di rado in sfide artistiche clamorose, talvolta facendo il passo più lungo della gamba, talaltre colpendo nel segno a dispetto dei dettrattori. Quel che conta è che la Fleming, oltre ad essere una delle ultime grandi divastre dei nostri giorni, con tutti i pro e i contro che questo ruolo porta con sè, è un personaggio che osa prima di tutto artisticamente e la cosa, a prescindere dai risultati, non può che destare da parte nostra curiosità ed ammirazione. Dopo aver battuto vari territori, anche apparentemente molto distanti dalle sue attitudini (memorabile la sua Alcina, strepitosa la sua Armida, per dirne due eclatanti), la Fleming cerca nuovi orizzonti nel verismo italiano (in senso molto lato in verità), con un recital tutto dedicato agli autori italiani post-Verdi. Un territorio in cui, lo premettiamo, la cantante è di partenza non poco a disagio. In verità la Fleming si era già cimentata, in recital precedenti, nelle pagine più celebri di Puccini, Cilea, Catalani, Leoncavallo ecc. con risultati soddisfacenti in alcuni casi e un po' meno in altri. Questo disco si promette implicitamente di completare il quadro. Lodevole quindi, da un certo punto di vista, l'assenza di tutti i brani precedentemente incisi, perlopiù pagine note a tutti, il che ha permesso, salvo un paio di brani decisamente di repertorio, di scavare e scovare pagine che normalmente sarebbe difficile ascoltare in un cd di arie. Un occasione quindi per rivalutare e riscoprire un certo repertorio che, tolti i titoli pucciniani e poche altre eccezioni, è spesso trascurato e, giustamente o ingiustamente a seconda dei casi, sottovalutato.

Arriviamo alla performance vera e propria. La Fleming come si è detto già appare a disagio e per svariati motivi. Il primo è quello puramente vocale: il suo volume non è adatto a ruoli così "spinti" e fà fatica a ergersi naturalmente su orditi orchestrali così densi. E' lei per prima ad ammetterlo nel video promozionale dell'album, dove parla di Tosca e Butterfly come ruoli off-limits per la sua voce. Per rimanere in tema Puccini, gli altri ruoli paiono comunque esserle estranei, sia per un problema di proiezione della frase nei momenti lirici, sia per un accento scarso nei passaggi declamati, sia pure per una timbrica poco consona, oltre che per distanza psicologica. L'aria da La Rondine funziona abbastanza nella sua leggerezza (come il concertato posto alla fine del disco), meno bene va la sua Manon - nella foto - (Sola perduta abbandonata presentata in una versione inedita che unisce allo scopo promozionale uno scopo funzionale, visto che l'aria sembra avere una strumentazione diversa più consona alle qualità vocali della cantante), in cui sembra mancare l'urgenza del dramma e un certo accento bruciante e disperato. Ancora meno bene poi vanno i pezzi da Bohème e Suor Angelica, pagine nelle quali la Fleming non convince e non porta nulla di nuovo se non una onesta esecuzione e un bel timbro. Il personaggio puro e struggente è probabilmente troppo distante da lei sia per sensibilità psicologica che per colore vocale, e il risultato è evidente. Il pezzo pucciniano dove la Fleming ha qualcosa da dire è proprio l'ultima aria di Liù che, manco a dirlo, col verismo in senso stretto non c'entra ormai più nulla. La Liù della Fleming non è una novella Mimì, è un personaggio cristallizzato nel suo dolore, nella sua rinuncia, è un po' l'archetipo della sofferenza per amore portata a termini estremi di annullamento della vita stessa, una carnalissima "anti-Turandot" che, al posto di difendersi dai sentimenti elevandosi ad un grado ultraterreno, prende la via del totale e consapevole abbandono. Il colore vocale della Fleming, specie nell'arioso iniziale, è spesso trasfigurato in una sofferenza irreale ma vibrante, un favolismo nel quale Reneè sguazza piacevolmente. La scrittura poi è ormai diversa da Butterfly e co. e da questo la Fleming ne trae vantaggio. Fatta questa eccezione il suo Puccini è francamente dimenticabile, come pure, più o meno per le stesse motivazioni, il suo Mascagni (un po' meglio Lodoletta di Iris, per ragioni squisitamente atmosferiche).

Con Leoncavallo invece le cose vanno decisamente meglio. Già in passato la Fleming aveva spesso cantato dal vivo (e inciso) l'aria degli uccelli da "i Pagliacci", pezzo non facile tecnicamente nel quale aveva dimostrato di saperci fare grazie, oltre che ad una tecnica ferratissima, ad una liquidità del canto connaturata che con questo brano andava a nozze. Ora si cimenta nella Mimì leoncavalliana, personaggio più frivolo dell'alter-ego pucciniano, sorta di sintesi tra la Mimì e la Musetta dell'opera del compositore lucchese, personaggio nei panni del quale forse continua a non brillare, ma risulta quantomeno più credibile. La vera sorpresa sono i dieci minuti della scena da Zazà, che la stessa Fleming non nasconde essere il suo pezzo preferito di questo disco e, in definitiva, il piatto forte. La scena è assai suggestiva, Zazà, soubrette di un caffè-concerto, scopre che il suo amante è sposato e con una figlia, e lo scopre proprio conoscendo e parlando con la bambina (nell'opera - in realtà un'operetta - un ruolo recitato). E' in realtà la scena chiave di tutto il dramma, incentrato su un personaggio dalla psicologia complessa, in bilico tra i tormenti divistici di Tosca (pure lei cantante, seppur di ceto diverso), il dolore interiorizzato di Cio cio san (pure lei tradita da un uomo già ammogliato), e soprattutto incarnazione della dicotomia tra vita artistica e vita privata già sviscerata da Leoncavallo stesso nei Pagliacci. Un personaggio che la Fleming riesce a fare suo e ad esprimere con un fraseggio ora amorevole, ora nervoso, ora denso di dolore sotteso e di una sensualità corrotta, decaduta, espressione di sentimenti tanto devastanti quanto mai espliciti. Un personaggio che, probabilmente, potrebbe anche riuscirle bene scenicamente. Come non è da sottovalutare il rapporto tra la Fleming e la musica di Cilea, compositore più "raccolto" e meno esteriorizzante rispetto a Puccini o Mascagni, dalla scrittura elegante e lirica che si confà maggiormente alla cantante americana. Se già in altri dischi i brani dall'Adriana avevano suscitato un certo interesse, anche l'aria da Gloria conferma le impressioni posive, laddove la linea di canto può farsi morbida e la dinamica preziosa. Glissiamo velocemente sulla pagina di Catalani, di scarso interesse musicale/interpretativo (Ebben me ne andrò lontana manca all'appello perchè già registrata in passato) nonchè fuori dal contesto storico/culturale che vorrebbe animare il disco. Così come poco rilevante è il pezzo dalla Conchita di Zandonai, sorta di Carmen in salsa proto-decadentista nella quale la Fleming sembra proprio non riconoscersi.

Ultima sorpresa quindi di questo disco decisamente alterno sono le arie di Giordano. Sulla carta si farebbe fatica ad associare Reneè Fleming alla musica di Giordano, e probabilmente aldilà di questi brani la cantante americana non riuscirebbe ad essere così efficace nell'interpretazione di un'opera completa, sempre a causa di una vocalità e una sensibilità a lei estranea. E invece la Fleming, almeno in questi estratti, centra il segno. Per cominciare recupera con esiti strabilianti una pagina bellissima come quella da Siberia, dal lirismo sognante e sospeso (nel quale la cantante dà sfoggio di mezzevoci vellutate davvero notevoli), ricco di suggestioni slave che rimandano in qualche modo a territori più familiari al soprano americano (vedasi Oneghin e soprattutto Rusalka). Poi rilegge in chiave neo-romantica la scena finale di Fedora, altra eroina avvolta nel gelo dei paesi dell'est. Una pagina che, storicamente, è stata oggetto delle più volgari degradazioni del gusto verista in senso dispregiativo (singhiozzata, declamata, urlata, rantolata e quasi mai cantata) e che quì è riportata ad un intimismo fragile e composto che riesce nell'impresa di essere infinitamente più credibile nell'esprimere lo smarrimento di una vita che si spegne nel freddo pungente del rimorso. La parte è cantata interamente, con un filo di voce, con un colore sbiadito e un suono malfermo, come una candela al vento nella quale brucia ancora l'ultimo ricordo di una sensualità e di una passione ormai priva di forza e comunque vana, una lettura che fà di Fedora una sorta di nuova Violetta - nella foto - chiudendo il cerchio del "realismo" nella storia del melodramma. Giudizio finale: nel complesso un disco con molti alti e bassi e non pienamente convincente, sicuramente non il miglior recital del soprano americano. Un disco che però si fà apprezzare vuoi per la riscoperta di talune pagine fuori repertorio, vuoi per alcune letture azzeccate che aggiungono altri piccoli tasselli al mosaico artistico di Reneè Fleming, che nel bene e nel male riesce ancora a trovare spunti di apertura stimolanti per lei stessa come artista e per chi come noi la ascolta e ne continua ad ammirare la volontà di sperimentare e il tentativo di dire, con la musica, qualcosa di nuovo.

Renée Fleming - Verismo
(DECCA 2009)

1) Puccini - “Senza Mamma” from Suor Angelica
2) Mascagni - “Un di ero piccina” from
Iris
3) Puccini - “Ore dolci e divine” from
La Rondine with Saito Kaoru, Lucia Mencaroni, Barbara Vignudelli
4) Mascagni - “Ah, il suo nome… Flammen perdonami” from
Lodoletta
5) Catalani - “Ne mai dunque avro pace…Ohime!” from
La Wally
6) Puccini - “Si mi chiamo Mimi from
La Bohème
7) Leoncavallo - “Musette svaria sulla vocca viva” from
La Bohème
8) Leoncavallo - “Mimi Pinson la biondinetta” from
La Bohème with Paolo Cautoruccio, Marco Calabrese, Saito Kaoru, Annalisa Dessi, Carlos Gomez, Gilles Armani and Choir
9) Puccini - “Addio… Donde lieta" from
La Bohème with Arturo Chacón-Cruz
10) Leoncavallo - “Angioletto, il tuo nome?” from
Zaza with Emma Latis
11) Puccini - “Sola perduta, abandonata” from
Manon Lescaut
12) Zandonai - “Ier della Fabbrica” from
Conchita
13) Cilea - “O mia cun fiorita” from
Gloria
14) Giordano - “Tutto tramonta” from
Fedora with Arturo Chacón-Cruz and Emma Latis
15) Puccini - “Tu che di gel cinta” from
Turandot with Arturo Chacón-Cruz, Marco Calabrese, Barbara Vignudelli, Choir
16) Giordano - “Nel so amore” from
Siberia
17) Puccini - “Bevo al tuo fresco sorriso” from
La Rondine with Jonas Kaufmann, Barbara Vignudelli, Paolo Cauteruccio and Choir




sabato 17 ottobre 2009

ESCLUSIVA: Intervista a Daniela Dessì


In vista del suo debutto europeo nella Traviata di Zeffirelli all'Opera di Roma abbiamo incontrato Daniela Dessì, uno dei più grandi soprani italiani attualmente in attività. I suoi esordi, il suo repertorio, riflessioni su musica, teatro, media, i ricordi alla Scala, quelli d'oltreoceano, i progetti futuri... Ecco cosa ha raccontato in esclusiva per Qui la Voce:

Daniela Dessì si rivela al mondo dell’opera vincendo il concorso internazionale della RAI nel 1980, il primo di numerosi riconoscimenti che arriveranno nella sua carriera. Un ricordo di quel momento e del successivo debutto teatrale.

Proprio ieri sera leggevo un libro su Maria Callas, un'artista ma anche una donna su cui è stato detto tanto e forse troppo, e il racconto dei suoi primi anni mi ha riportata ai miei inizi. L'inizio è simile per tutti, si ha voglia di fare e di divenire qualcuno, di dire la propria parola in questo mondo teatrale. Nel mio caso ricordo molto bene che una sera, quando avevo sedici anni, a Brescia davanti ad un cartellone del teatro dissi a un’ amica che era con me: "io voglio assolutamente diventare una grande cantante lirica". Ho studiato tanto per realizzare il mio sogno; in questo campo non bisogna mai farci prendere dalla fretta. Vincere i concorsi è molto importante perchè aprono le porte dei teatri, anche se oggi tanti giovani bruciano le tappe troppo in fretta. Grazie a quel concorso Rai ebbi la possibilità di conoscere il Maestro Herbert von Karajan e di lavorare con lui, e fu un'esperienza meravigliosa.


Da quel 1980 sono passati quasi 30 anni; in questo periodo abbiamo visto spaziare il suo repertorio in varie direzioni. All’inizio è stata impegnata anche in produzioni di titoli settecenteschi, poi via via è arrivata fino a Verdi, Puccini e la giovane scuola. Come ha fatto ad affrontare ruoli così diversi? La tecnica è davvero una sola?

Ho iniziato a cantare quando ero ancora molto giovane, a diciotto anni e per una ragazza di quell'età pensare ad un repertorio di melodramma puro (Verdi, Bellini, Puccini) sarebbe stato folle. E' un omicidio vocale affrontare quel tipo di repertorio con una voce ancora giovane e quindi non ancora allenata per quei ruoli. All'inizio, volente o nolente, ho dovuto pensare a fare cose più semplici che mi hanno però arricchito in esperienza musicale, anche perchè realizzate in contesti prestigiosi. Nel tempo ho potuto usufruire dell'aiuto che mi hanno dato queste opere del Settecento. Quando la voce matura, e questo può avvenire solo con la tecnica (che è la base di tutto) e lo studio, si possono affrontare i grandi personaggi del repertorio. Con la tecnica si arriva ad avere anche sicurezza come attori, perchè se abbiamo preoccupazioni o difficoltà sul piano vocale non si è liberi di recitare e cantare bene. La base tecnica è una sola, poi chiaramente bisogna passarla attraverso la propria personalità e quindi possono variare alcuni aspetti.

Oltre a Verdi e Puccini, al settecento e al novecento, anche il belcanto nel suo repertorio, da Rossini a Bellini, alle regine donizettiane. Quali sono le difficoltà nell’eseguire questo tipo di repertorio e nel confrontarsi con la scrittura impervia che i compositori riservarono alla Pasta, alla Ronzi e alle altre grandi dive del passato?

Direi che oggi affrontare ruoli simili è una vera scommessa. Sono estremamente impervi rispetto forse ad anni fa in cui si potevano affrontare meglio per un’altezza diversa del diapason. Vanno affrontati con coraggio ed un pizzico di presunzione, bisogna sfidare la musica e la partitura, superare queste sfide ci aiuta a gestire anche l’aspetto visivo ed auditivo. La preparazione vocale di queste opere in particolare deve essere fatta con uno studio tecnico rigoroso perché le note vanno messe a punto una per una.

Parlando invece dei cantanti del passato più recente, quali sono quelli che l'hanno colpita di più e perchè?

Conoscere il passato e i suoi cantanti è un bagaglio molto importante per un artista di ora, è come studiare la storia. Ci sono stati per me tanti modelli da seguire anche per prendere da ognuno un piccolo segreto. Tra i soprani amo Rosa Ponselle che è stata una delle più grandi cantanti di tutti i tempi, amo Maria Callas per lo spirito di innovazione vocale e teatrale che aveva, e poi potrei citare la Tebaldi o la Scotto. Ammiro comunque sempre chi è bravo e si sa distinguere e questo vale per il passato così come per il presente.

Daniela Dessì ha avuto il privilegio di cantare diretta dalle più grandi bacchette. Sappiamo che il direttore d’orchestra ha un ruolo fondamentale nella preparazione di uno spettacolo. Quali sono i direttori che le hanno dato di più in termini sia musicali che umani?

Non sempre la musicalità si sposa con l’umanità, però quando si fa musica una delle cose belle è che si è uniti da questo filo invisibile che è la musica stessa e tutti parliamo la solita lingua. Non potrei citare un direttore o due o tre, perché ognuno mi ha dato qualcosa, da Karajan ad Abbado a Muti, Kleiber o Sinopoli. Per me è stata una grande scuola poter seguire i consigli di così grandi direttori, è stato importantissimo perché mi hanno sempre dato la sicurezza per tirare fuori le mie possibilità e confrontare le mie idee con le loro. Dico volentieri che ho COLLABORATO con loro più che lavorato, perché lo spettacolo si fa tutti insieme ed ognuno ha una parte che è fondamentale. Da giovane è importante incontrare figure così significative e da grande posso dire che quelle collaborazioni hanno costituito momenti di grande confronto musicale.

Grandi bacchette e grandi teatri: tra tutti il Teatro alla Scala, considerato il massimo teatro lirico italiano e uno dei più grandi al mondo, nel quale ha cantato più volte trionfando davanti a quello che viene considerato il pubblico più esigente. Cosa rappresenta per lei la Scala? E cosa rappresenta oggi in generale?

Amo molto la Scala, è indubbiamente il tempio della lirica. Il pubblico è sincero e diretto e ti da sicurezza. Purtroppo oggi rappresenta per i giovani cantanti un punto di partenza quando invece secondo me dovrebbe rappresentare un punto di arrivo come era anni fa, è stato un errore degli ultimi anni questo, ma spero che si capirà. Avere dei trionfi alla Scala ti riempie di gioia e di forza per andare avanti nel tuo mestiere…e poi…è il teatro di Verdi…

A proposito di Verdi e della Scala, guardando ed ascoltando l’ultima inaugurazione scaligera col Don Carlo, a noi è venuto subito in mente il suo famoso Don Carlo alla Scala col maestro Pavarotti (debuttante nel ruolo dell’infante), Riccardo Muti e la regia di Franco Zeffirelli. Pavarotti stesso rinnegherà la propria interpretazione, noi riascoltando alla luce di questi anni, diciamo che fu un grandissimo allestimento e grandissime furono le interpretazioni dei protagonisti. Un ricordo di quell’evento e del maestro Pavarotti.

Ti dico subito che quella produzione l’ho sempre difesa perché l’ho apprezzata molto, l’abbiamo voluta tutti e abbiamo lavorato tanto per realizzarla. In molti hanno disprezzato quello spettacolo, tanto rumore poi in particolare per una nota strozzata di Luciano contro cui era stata organizzata una vera e propria battaglia. Ricordo con molta precisione le parole che mi disse mio padre in quell’occasione:”vedrai che tra tanti anni potrai dire, io a quel Don Carlo c’ero”, colse pienamente nel segno. Per Luciano questo è stato un grande cruccio per molti anni, ho trovato irriverente fargli un torto così grande e anche se è ovvio che il teatro è fatto anche di queste cose lui non doveva assolutamente aspettarsi niente del genere, poi per una nota soltanto. Ad alcuni cantanti si perdonano cose ben peggiori. E’ stato un tenore veramente meraviglioso.

Qual’è la sua concezione registica di uno spettacolo? sappiamo e vediamo che molti registi oggi tendono a prendersi troppe libertà nell’opera, spesso andando in direzione completamente contraria alle volontà degli autori dell’opera stessa.

Hai detto bene. Io credo che la produzione debba essere rispettosa per la voce e per la musica. Bisogna che il cantante, già sottoposto allo stress vocale debba riuscire a muoversi e cantare liberamente. Per me la classe, il gusto e l’equilibrio sono cose fondamentali per l’allestimento di uno spettacolo.

L'aspetto scenico nell'opera, come già sottolineato, è fondamentale, e Daniela Dessì è una grande cantante-attrice, come ha più volte dimostrato. Com’è cambiato negli anni il suo rapporto tra canto e recitazione? Quale preparazione c’è dietro? come si può governare l’emozione in scena?

Sicuramente qualcosa è cambiato perché l’esperienza teatrale migliora anche l’equilibrio tra resa vocale e resa scenica. Per recitare bene bisogna avere certamente una sicurezza vocale grande, i problemi fisici e quindi vocali ostacolano la buona riuscita della recitazione. Fin dall’inizio della mia carriera sono sempre entrata nel personaggio, dicendomi:se fossi lei cosa farei? Bisogna capire lo stato d’animo del personaggio, che cambia del tempo. A seconda di come mi sento chiaramente ogni sera l’interpretazione sarà diversa nelle piccole sfaccettature. Purtroppo non ci sono trucchi per governare l’emozione, si deve riuscire a limitare l’azione dell’immedesimazione sul nostro stato d’animo; quando entro in scena e mi succede di essere ansiosa mi dico sempre:”se ora hai paura, ricordati che la paura frega e otterrai un risultato negativo”. Quando vado davanti al pubblico penso che questo sia li per darmi carica e non per togliermela, entrare nel personaggio è molto importante appunto anche per eliminare l’ansia.

Cosa significa lavorare al fianco della persona che le è accanto anche nella vita (Fabio Armiliato)? è più difficile o più facile che cantare con altri colleghi?

Ovviamente è più facile, è chiaro che tutto si semplifica perché c’è un modo diverso di capirsi e quindi di agire di conseguenza, basta uno sguardo per comunicare qualcosa e quindi si risolvono tante problematiche. C’è però anche uno stress maggiore per l’altro da parte di entrambi ed in questo senso è più difficile che cantare con altri colleghi.

A proposito di emozioni, personalmente ho un ricordo molto emozionante della Madama Butterfly del centenario a Torre del Lago nel 2004. Che legame ha con questo personaggio e che emozione ha provato nel cantarlo a Nagasaki?

Ho un rapporto straordinario col personaggio di Butterfly, anche perché l’ho cantata in tutti i più grandi teatri dal Metropolitan a Madrid alla Scala, quindi diciamo che è un’opera che più di altre mi ha portata in giro. Per Cio Cio San ho davvero un affetto particolare, attraverso lo studio del personaggio ho potuto capire le usanze e i modi di pensare delle donne giapponesi, un popolo dotato di grande sensibilità e che apprezzo moltissimo. Sono stata la prima occidentale a cantare Butterfly a Nagasaki ed in Giappone, ed anche questo è stato molto importante. Poi devo dire che quest’opera è stata sempre boicottata, soprattutto agli inizi, e per amore verso Puccini che ci teneva tanto amo forse ancora di più Butterfly.

Rimaniamo in tema di personaggi ai quali è legata; mi piacerebbe sapere alcuni ruoli che rappresentano su tutti la sua personalità artistica e i carattere psicologici che in essi sente più vicini ai suoi.

E’ una domanda molto difficile questa perché non è facile scindere la musica dai personaggi. Però potrei dire per esempio TOSCA, prima di tutto perché penso che più vicina di Tosca ad una cantante lirica non ci sia nulla, Tosca è una cantante lirica, poi per la sua forza, la passionalità ma anche la fragilità della donna, insomma racchiude alcuni tratti che ritrovo anche in me molto forti. Adoro NORMA che è un personaggio a tutto tondo, fortissimo e allo stesso tempo dolce, di MANON LESCAUT invece mi piace cogliere gli entusiasmi giovanili e le superficialità di un’età ingenua che poi sfociano nel drammatico finale, questo lo trovo molto interessante. Un legame particolare, come ti ho già detto prima, è quello che ho con CIO CIO SAN che se è molto lontana da me perché appartenente a tradizioni diverse mi da molte emozioni, principalmente perché è una mamma e io sento molto forte questo ruolo nella mia vita. E poi direi ancora AIDA di cui mi affascina la forza che sprigiona pur essendo una principessa ridotta in catene ed infine FRANCESCA DA RIMINI un ruolo sensuale e dolcissimo, affascinante la sua storia ma di grande difficoltà vocale e interpretativa.

Norma in particolare è un'opera che ha debuttato di recente e che le ha regalato un grandissimo successo; può raccontarmi brevemente come si prepara e in quanto tempo una parte così impegnativa?

Norma l'ho preparata teatralmente in una sola settimana, perchè nonostante avessi voluto riservare più tempo alla realizzazione scenica i miei impegni non me lo hanno permesso. Dal punto di vista psicologico e musicale ho avuto modo di prepararla mentalmente fin da ragazzina, è stata un'opera che ho sempre amato tanto. Era matura dentro di me. Prima di prepararla con lo spartito nei dettagli musicali e vocali avevo già una conoscenza completa del ruolo.

Tra i suoi imminenti impegni invece c’è una Traviata con Zeffirelli all’Opera di Roma. Ci parli un po’ del lavoro dietro a questo personaggio e del lavoro con uno dei più grandi registi italiani.

La Traviata l’ ho già cantata qualche anno fa in Giappone, è ruolo meraviglioso per me, e sarà a Roma il debutto europeo. E’ un personaggio che conosco da tanto tempo, perché come per Norma è una delle prime opere che si ascoltano e Violetta ha avuto una lunga maturazione dentro di me da quando sono molto giovane. E’ ricchissima emotivamente e come personaggio teatrale. Vorrei dire però questo: che sono una Traviata un po’ “all’antica”, nel senso che la risolverò con la mia voce da lirico spinto come facevano Renata Tebaldi o Virginia Zeani. Spesso è stata ed è affidata a soprani leggeri che risolvono il primo atto ma poi hanno difficoltà negli altri due proprio perché la scrittura di verdi cambia col cambiare del personaggio. La mia Traviata mirerà alla drammaticità. Con Zeffirelli non ho ancora lavorato su Violetta, ma ne parleremo poi…

Sappiamo tante cose sul teatro d’opera passato, ma oggi cosa significa essere una cantante di primo livello e come si vive nel mondo operistico?

Il teatro è sicuramente cambiato molto con il passare del tempo ed il conseguente avvento dei media ed oggi è un luogo per i soli amanti della musica; l'opera non è più un genere musicale radicato nella cultura anche di tipo domestico come era anni fa. Di conseguenza è ovviamente diversa la situazione dei divi dell'opera rispetto a cinquanta o sessanta anni fa, quando i cantanti divenivano star in ogni senso. Oggi sicuramente dobbiamo lavorare di più per affermarci rispetto a quanto facessero in passato. Per me è stato sempre il più grande desiderio cantare e fare parte di questo mondo da protagonista. Non so come avrei affrontato il teatro se avessi cantato in quell'epoca, ma oggi lo amo davvero molto.

Parlando appunto dei media, oltre che a teatro, la vediamo anche in tv sia nei suoi panni che in quelli delle eroine che incarna (ricordiamo di recente i telecast di Norma e Francesca da Rimini andati in onda proprio sulla Rai) Il suo rapporto con i media, specialmente con la tv, e più in generale qualche riflessione sul rapporto tra opera lirica e mezzi di comunicazione di massa.

Io considero molto importanti i media per la divulgazione, anche dell’opera lirica, se fatta però con cognizione di causa. Non mi metterei mai a frequentare programmi non utili alla diffusione dell’opera in Italia o all’estero. Però a volte mi piace anche divertirmi in modo intelligente come è accaduto a Sanremo quest’anno, mi piaceva l’idea di collaborare con Francesco Renga e mi piaceva la canzone dedicata ai grandi tenori del passato, portare l’opera a Sanremo che è una grandissima vetrina internazionale è un modo per riproporla anche ad un pubblico diverso. Cerco di far capire anche ai media più leggeri, come i rotocalchi, quando rilascio interviste o fanno servizi su di me che il cantante lirico non è, come in tanti purtroppo pensano, una mummia, una persona che non si stacca dal proprio mondo, ma che è una donna o un uomo normale. Cerco di essere presente in tv quando posso parlare di opera, non sono presenzialista e non cerco in tv un’autocelebrazione, che è un fattore negativo. Essendo presente a volte in alcuni programmi spero di trovare nuove persone che si appassionino al teatro operistico.

Sempre in tema di "comunicazione", Daniela Dessì è anche quotatissima insegnante. Cosa rappresenta per lei l’insegnamento e quali principi generali cerca di trasmettere ai suoi allievi? Ci sono voci interessanti oggi?

Per me l’insegnamento è meraviglioso, è una straordinaria possibilità per poter trasmettere quel poco o quel tanto che ho imparato nella mia carriera. Mi sono resa conto ultimamente che il problema più grande è l’insicurezza, le scuole di canto in Italia sono davvero troppo poche. Vorrei trovare una persona cui poter dare tutto quello che ho imparato, che un giorno qualcuno cantasse come canto io e portasse avanti quello che ho iniziato. Le voci ci sono oggi e c’è anche una buona volontà di imparare, è che vengono gestite male, perché si canta, e si lascia cantare, tutto e subito. Questo è l’errore più grande perché porta a rovinare una voce e una carriera.

Un grazie a Daniela Dessì da Qui la Voce, con la speranza di ritrovarla presto quì come a teatro.




domenica 11 ottobre 2009

DISCOGRAFIE CRITICHE: Bellini e le sue Primedonne (Parte 3)


SONNAMBULA E NORMA: i due volti del soprano Pasta (prima puntata)



Apriamo questo articolo con una immagine emblematica: Maria Callas "allo specchio" raffigurata in due tra i suoi ruoli più importanti, ovvero Norma e Amina, due personaggi tradizionalmente considerati agli antipodi ma che, in realtà, sono molto più simili rispetto ad altri ruoli ai quali vengono tradizionalmente accostati. In altre parole, Amina è più vicina a Norma che a Lucia, come Norma è più vicina ad Amina che non a Turandot. La loro "distanza" è frutto di un equivoco generato all'inizio del secolo, equivoco perlatro tutt'altro che infrequente anche ai giorni nostri. Premessa: v'è da dire che, come già è stato accennato, all'epoca di Bellini non esistevano le classi vocali a cui siamo abituati oggi, quindi è difficile ragionare in termini di vocalità moderna. Bellini aveva sostanzialmente una voce di soprano a disposizione, che doveva essere abbastanza corposa, almeno nel caso di Giuditta Pasta, la storica cantante per cui furono scritte Norma e Sonnambula, ma anche nel caso (meno eclatante come abbiamo visto) della Merich-Lalande.

La Pasta era stata, prima di essere soprano, un contralto di successo, quindi possedeva una grande estensione in basso e sicuramente un timbro scuro e rotondo. Ma la divina Giuditta, così si apprende dalle cronache, per essere un contralto aveva una voce giudicata "chiara" e grande estensione in alto, tant'è che, anche a inizio carriera, si sentiva già "soprano assoluto", giacchè è noto che cantava benissimo Don Giovanni come pure Otello, Mosè e Semiramide, tutti ruoli della Colbran. Esistevano quindi due "caratteri" (chiamiamoli così) e non due vocalità, un soprano "patetico" e un soprano "tragico", entrambi incarnati dalla stessa cantante, che possedeva una voce dal timbro intermedio, di colore scuro ma non brunito come quello di un contralto, dotata di grande agilità ma anche di grande controllo del fiato e del legato. Tradizionalmente invece Amina è finita nel repertorio del soprano leggero in senso stretto, che era tipicamente francese e non apparteneva alla tradizione italiana, mentre Norma in quello del soprano drammatico propriamente detto che, assieme al mezzosoprano, in pratica nascerà con Verdi.

La stessa Adalgisa nella Norma è spesso erroneamente affidata ad un mezzosoprano, per differenziarla dalla protagonista, quando in realtà è semplicemente un soprano di prima specie con scrittura da comprimario meno "in vista". Lo conferma il fatto che nella prima la parte fu affidata alla Grisi, dalla voce meno estesa e versatile della Pasta, tendenzialmente più un lirico d'agilità, come oggi lo chiameremmo (la stessa dicotomia "Pasta-Grisi" la troviamo in Donizetti tra Bolena e Seymour). La scrittura infatti non scende mai molto in basso tant'è che sia la Caballè che la Freni (entrambe soprani lirici con gravi molto esili) hanno potuto cantare la parte. Norma invece è stato, per tutta la prima metà del secolo fino all'avvento della Callas, cavallo di battaglia di soprani drammatici di forza, che col belcanto avevano poco a che spartire (la Milanov e ancor di più la Cigna - nella foto -, che fu nella prima metà del secolo Norma e Turandot per antonomasia), mentre a cavallo tra 800 e 900 c'erano ancora i grandi soprani drammatici come Ester Mazzoleni o Lilli Lehmann, ultimi fenomeni vocali di una vecchia scuola, che cantavano il repertorio drammatico con la tecnica del belcanto (la prima con un repertorio che andava da Medea a Lucrezia Borgia, l'ultima - molto citata dalla Callas - aveva in repertorio Mozart, Meyerbeer e Bellini pur essendo grande soprano wagneriano). Interessante poi come l'equivoco speculare, ossia di sostituire un soprano patetico "protagonista" con un soprano leggero, per associazione al carattere fragile ed angelicato del ruolo (parliamo della Dal Monte, della Carosio, della Pagliughi a salire fino alla Tetrazzini) si estenda ancora di più nella storia del melodramma, fino ad Elvira dei Puritani, a Gilda del Rigoletto e persino alla Butterfly pucciniana.

Questo processo di divergenza si acuì per lo più tra le due guerre, come conseguenza dell'estetica estremizzante verista che pareva aver raggiunto un punto di non ritorno. Mentre i soprani leggeri avevano già "invaso" il repertorio italiano dalla fine dell'800, negli anni 20 c'era ancora qualcuno come la Muzio o la Ponselle - nella foto - musa ispiratrice della stessa Callas, che vantava una voce autenticamente drammatica sostenuta da una tecnica superiore, seppure in un repertorio che si limitava ai ruoli del soprano "tragico"; se è vero infatti che la Ponselle fu superba Norma, mai la diva avrebbe affrontato Amina, stilisticamente considerata incompatibile con l'allure da grande tragediènne che la circondava, oltre che vocalmente troppo impervia (già in Norma la Ponselle "aggiustava" non poco). Furono comunque eccezioni all'interno di una tradizione ormai consolidata. La vera incompatibilità tra ruoli e vocalità che si era venuta a creare portava con se anche problemi strettamente tecnici: la Callas sottolineava come questi ruoli avessero tutti "a terrible centrale", ovvero un registro medio dove la scrittura insiste che doveva essere fluido, leggero e al tempo stesso pieno e rotondo nel suono. Il risultato era che il soprano drammatico di forza semplificava e pasticciava terribilmente con le agilità ed era spesso in difficoltà col legato aereo, il soprano leggero invece era difficilmente capace di rendere credibili i cantabili sul medium che, inevitabilmente, perdevano di consistenza e di fascino, oltre a dover operare più di un aggiustamento in alto per affrontare i passaggi più gravi e rimpinzare la partitura, come era consuetudine nel loro repertorio, di melismi dal puro virtuosismo esteriore. Sonnambula e Norma, da avere quindi entrambe la stessa voce ossia quella della Pasta, si sono ritrovate nel tempo con due voci antitetiche e parimenti inadatte al repertorio, il che è stato per anni non solo fuorviante storicamente (motivo sul quale l'ascoltatore medio potrà soprassedere), ma ha spesso prodotto esecuzioni evidentemente non all'altezza sia sul piano stilistico che su quello puramente vocalistico. Ci sembra doveroso quindi, prima di passare in rassegna le interpreti di uno o dell'altro ruolo, fare un discorso a parte che proceda parallelamente sulle cantanti più importanti che hanno affrontato entrambi i ruoli, come nell'800 era prescritto. Ma prima, cinque esecuzioni "emblematiche" di Casta Diva dell'epoca pre-callasiana:


Lilli Lehmann



Rosa Ponselle



Claudia Muzio



Toti Dal Monte



Gina Cigna



martedì 6 ottobre 2009

RECENSIONE: Natalie Dessay - Mad Scenes


Esce tra un paio di settimane (il 19 ottobre per la precisione) il nuovo disco di una delle artiste contemporanee più amate, ammirate e da taluni puristi criticate quale è Natalie Dessay. Il disco, dal classico titolo didascalico di "Mad scenes", non contiene in realtà nulla di nuovo che il fan della Dessay già non possegga; esso assembla infatti le scene di "follia" che il soprano francese ha inciso lungo la sua carriera ormai ventennale. Qualcuno direbbe quindi operazione meramente commerciale, e in realtà avrebbe ragione a crederlo. Ma quando un disco, che esso sia compilation o prodotto appositamente registrato, contiene materiale di un certo interesse artistico, dal nostro punto di vista è comunque degno di attenzione, comunque di una attenzione maggiore rispetto a prodotti freschi di sala di incisione ma stantii nel contenuto musicale. Detto ciò, il disco presenta un excursus musicale abbastanza eterogeneo che, partendo idealmente dall'opera italiana filtrata attraverso il gusto francese (Lucie), passa in rassegna il grand-opéra, l'operetta e, per chiudere il cerchio il melodramma romantico per antonomasia di Lucia (versione italiana) che, giocoforza, vuol essere il pezzo forte del disco.

Le due versioni di Lucia, oltre all'autocompiacimento della diva, sono funzionali anche alla rappresentazione del percorso artistico di questa cantante e offrono interessanti spunti di confronto più che sul piano musicale su quello meramente interpretativo. La versione francese di questa scena infatti differisce di poco da quella italiana (è più breve e ha la cabaletta trasposta in alto) ma la sensibilità con cui la Dessay affronta le due pagine è profondamente diversa. Se dal vivo la Dessay di oggi propone una Lucia - in italiano - rivoluzionaria e "veristeggiante" (con l'indignazione di molti e l'apprezzamento di molti altri), la sua Lucie francese appariva più moderata e introspettiva, come se al posto di guardare il personaggio attraverso Puccini lo si guardasse attraverso Massenet. In studio questa impressione sembra si sovverta. La versione francese presenta una vocalizzazione poco più sicura di quella italiana, ma quest'ultima possiede una ricchezza di colori e varietà di fraseggi che denotano un maggiore lavoro interpretativo sia legato alla parola e alla psicologia del personaggio sia sul piano strettamente tecnico. Qualcuno noterà più di una "magagna" (colorature non proprio precise, note smorzate e filature ad hoc sugli acuti più pericolosi ecc.) ma non è peccato mortale, almeno secondo noi, se un artista scende a patto con le "rughe" della propria voce anzi, se questi è un artista degno di tale nome, sarà spinto dai suoi limiti verso una maggiore ricerca del colore che, a conti fatti, è il vero discriminante di una interpretazione; è accaduto con la Callas, la Gencer, la Scotto, la Sills, alle quali abbiamo perdonato di tutto sul piano puramente vocalistico, accade ora con la Dessay.



Il lungo recitativo iniziale, seppur ben cantato, offre pochi spunti per far gridare al miracolo ma, in realtà, sembra essere funzionale ad una escalation di tensione che si risolverà solo col mi bemolle nel finale ultimo. Ardon gli incensi infatti è già assai più emozionante, tinto di luci ed ombre, e di una passione ardente eppure quasi sotterranea. Azzeccata pure la scelta di rinunciare al flauto durante la cadenza: la sensazione è che Lucia, sola con le sue visioni, si aggiri attraverso i corridoi del castello che fanno eco ai suoi vaneggiamenti. La parte centrale che conduce alla cabaletta ha invece il famoso urlo in sostituzione di una nota cantata che tanto scandalo ha suscitato fra i filologi. Non è beninteso l'urlo bercio che si è ascoltato al Met, ma è più una terrificante nota afona, meno esteriore nell'effetto scenico ma decisamente più agghiacciante nel drammatico sprofondare del suono in una disfonia cacofonica così non convenzionale. Spargi d'amaro pianto ci appare ora come diretta conseguenza di questo terrore latente, e assume così una atmosfera cupa e schizofrenica assolutamente inedita, con cambi di tempo e di carattere ancora più accentuati. La Lucia della Dessay è una sposina che sguazza in un bagno di sangue in bilico tra coscienza e follia, è quindi qualcosa di stranamente vicino all'Elisabetta del Devereux più che alla Amina belliniana (o forse dovrei dire vicino alla Stuarda, dato che nel recital originale di arie italiane in cui è contenuta tale scena la nostra Dessay dà inaspettatamente una interpretazione convincente e "umanizzante" del personaggio della sfortunata regina). Una lettura affascinante che avvicina i due mondi donizettiani come solo la Sills forse riuscì a fare, con mezzi e sensibilità diversi.

A confronto di tanta tragica grandeur la scena da I Puritani delude un po'. Punto primo perchè la Dessay è più a disagio col cantabile belliniano, scomodamente centrale e, soprattutto, fluido e legatissimo, punto secondo perchè, forse avendo maturato meno il personaggio, non le riesce di uscire dallo stereotipo di fanciulla tradita e ferita che, per amore, perde il senno. Il vero punto forte diventa quindi la cabaletta Vien diletto, di solito un po' "buttata là" anche dalle grandi cantanti che la utilizzano fondamentalmente come pezzo di bravura. Ebbene il pezzo in bocca alla Dessay, che gioca ancora con i tempi e i colori più che con le colorature, diventa una vera e propria "love song" e acquista una dignità espressiva che molte interpreti, concentrate sulle scale e le terzine, relegano nello sfondo. Stesso discorso si potrebbe fare per l'aria dalla Dinorah, questo diventato vero e proprio cavallo di battaglia dei soprani di coloratura, che la eseguono praticamente come esercizio da concerto. La Dessay invece, oltre a riaprire un bellissimo cantabile centrale di solito omesso, stupisce per la sua versatilità ritmica (sentire come gioca con le pause) e coloristica più che per il virtuosismo esteriore, qui pure straordinario visto che l'aria è incisa ai tempi d'oro quando la voce era ancora capace di uno strabiliante e inaspettato La bemolle (sì, ho detto LA bemolle!!) sovracuto. Attraverso una illuminazione cangiante delle note emesse ci sembra davvero che Dinorah stia giocando con la sua ombra come faceva Peter Pan, perso anche lui nel suo mondo di spensierata fanciullezza. E così persino il "vecchio e manierato" Mayerbeer riesce idealmente ad avvicinarsi alla verve modernissima dello scatenato Bernstein del Candide, in un ideale ponte costruito attorno alla filosofia leibniziana del "vivere nel migliore dei mondi possibili". Poco da dire su questo pezzo, semplicemente uno dei cavalli di battaglia del soprano francese. E più che per la capacità vocale la Dessay è memorabile per quella strettamente attoriale, che emerge prepotente anche solo in audio attraverso una comicità spontanea e surreale che riesce a battere molte delle interpretazioni storiche che sanno di costruito. La Dessay carica dove serve, è smorfiosa, vanitosa, esagerata, canta, parla, piagnucola, urla come la caricatura di una diva svampita, come una Manon sotto anfetamine, dimostrandosi oltre che cantante di razza una grande caratterista, esperta nell'uso della voce non solo in senso belcantistico ma anche teatrale. Oltre a dimostrare un'autoironia che, diciamocelo, è spesso estranea a molte sue colleghe.


Ma il vero miracolo avviene con una pagina di solito sottovalutata. L'Amleto di Thomas è tutto sommato un'opera prolissa e spesso molto di mestiere, la cui unica pagina davvero celebre è, appunto, la pazzia di Ofelia, divenuta nel tempo cavallo di battaglia dei soprani leggeri che affrontano il repertorio francese. Già la Callas, nel suo Mad Scenes di ormai 50 anni fa, aveva provato a ridare dignità a questo pezzo attraverso una lettura meno banalizzante delle fioriture e una cura maggiore nell'accento delle parti cantabili. Alla Callas dell'epoca però mancava ancora il gusto francese, nonchè la confidenza con un personaggio a lei estraneo che inevitabilmente finisce per essere più figlio illegittimo di Lucia che parto della penna di Shakespeare. Un traguardo certo enorme per l'epoca (e contestualmente rivoluzionario) superato dalla lettura mozzafiato della Dessay, che qui può rendere ai massimi livelli in un repertorio dove si trova pienamente a suo agio. Il tempo dilatatissimo conferisce alla pagina un carattere sospeso e onirico che al tempo stesso permette alla voce della Dessay di lavorare sui dettagli più piccoli dell'espressione come mai nessuna aveva fatto in passato su quest'aria. Si ascoltino in particolare l'arioso iniziale e la scena della "canzone", triste e già satura di morte come fu la canzone del salce per Desdemona in un ipotetico, ma neanche tanto, parallelo tra le due eroine shakespeariane. In mezzo le esplosioni improvvise di virtuosismi e puntature acute, affrontate in maniera quasi espressionista, talvolta laceranti nella loro violenza e ora totalmente funzionali al piano drammaturgico. Ma se Lucia in preda alla follia diveniva carnefice, Desdemona diventava vittima della follia altrui, Ofelia è vittima e carnefice di se stessa, archetipo dalla follia suicida che si perpetua attraverso una forma di rituale autolesionistico che, aldilà della metafora scenica, appare ancora attuale se considerata su un piano puramente psicologico. E al grido di "per te io muoio" Ofelia immola la sua anima in maniera irrazionale ma drammaticamente conscia, sacrificio che la Dessay esprime in maniera emozionante attraverso un'interpretazione profonda e sentita di una modernità sconvolgente.

Zizzu


NATALIE DESSAY - Mad Scenes : Scènes de folie
(Virgin Classics - 2009)

DONIZETTI : Lucie de Lammermoor (Lucie)
BELLINI : I Puritani (Elvira)
THOMAS : Hamlet (Ophélie)
BERNSTEIN : Candide (Cunégonde)
MEYERBEER : Le Pardon de Ploërmel (Dinorah)
DONIZETTI : Lucia di Lammermoor (Lucia)






domenica 4 ottobre 2009

DISCOGRAFIE CRITICHE: Bellini e le sue Primedonne (Parte 2)



I CAPULETI E I MONTECCHI: il contralto primadonna

I Capuleti e i Montecchi è la prima opera belliniana "di repertorio". Alla fine degli anni 50 è Giulietta Simionato, nel ruolo en-travesti di Romeo, a fare da pioniera nel revival di quest'opera (esistono 2 registrazioni live a testimonianza). La Simionato è una vera e propria antesignana del ritorno del contralto belcantista, la prima forse in epoca moderna che si cimentò, senza avere probabilmente riferimenti storico-estetici nell'immediato passato nè una preparazione specificatamente "belcantista", in questo tipo di repertorio uscendone spesso vincitrice grazie alle sue doti sia puramente vocali (innegabile la sua tecnica ferrata) sia interpretative (pensiamo anche al suo Barbiere, cantato coraggiosamente quando ancora l'opera era in mano ai soprani leggeri). Parliamo quindi dei contralti, giacchè è Romeo il personaggio di punta di quest'opera, in qualche modo la vera "primadonna", nonchè l'unica parte autenticamente per contralto protagonista scritta da Bellini. A riprova di ciò occorre ricordare che la parte fu affidata a Giuditta Grisi, contralto sorella del soprano Giulia, e ancor più rilevante è il fatto che il più grande contralto dell'epoca, la Malibran, ne fece uno dei suoi cavalli di battaglia.

L'opera poi fini per scomparire dai cartelloni alla fine dell'800 e, salvo le già citate pionieristiche riesumazioni del secondo dopoguerra, ricomparirà nei teatri italiani solo nel 1967 alla Scala. Cast stellare, Abbado sul podio, Giulietta è Renata Scotto, Romeo è Giacomo Aragall, Tebaldo è Luciano Pavarotti. Abbado però, che tanto filologico era con Rossini, ci andrà giù pesante su questa partitura, con rimaneggiamenti, tagli e soprattutto terribili trasposizioni tonali atte ad adattare la parte di Romeo, normalmente si è detto affidata a un contralto, al tenore, in una sorta di (irrispettosa) versione moderna dell'opera che vorrebbe il ruolo maschile affidato a una voce maschile. Risultato affascinante sul piano drammaturgico ma decisamente censurabile perchè, oltre a tradire lo spartito belliniano, sovverte completamente gli equilibri tra i personaggi rendendo Giulietta, in origine comprimario "patetico" dalla scrittura decisamente meno in evidenza, l'unica "falsa" primadonna (come per intederci se Adalgisa diventasse la protagonista nella Norma). Versione che, quel che è peggio, divenne per un decennio buono "tradizione". La Ricciarelli ad esempio, altra celebre Giulietta, ha al suo attivo un live ufficiale del 1991 alla Fenice, ormai decisamente alle corde, e una registrazione del 1973, sempre alla Fenice, quì in stato di grazia, in cui viene usata la versione col tenore al posto del contralto (Lucchetti nella fattispecie).

La versione in studio, e quella di riferimento, è quindi quella del 1975 con la ferratissima Janet Baker nel ruolo di Romeo e la stupenda Giulietta di Beverly Sills, non più nel fiore degli anni con la voce ma ancora eloquentissima. Non quindi quel che si dice un modello di "canto all'italiana", ma la cosa ci interessa poco giacchè il calibro delle artiste e il fatto che sul podio Patanè lasci praticamente, per la prima volta, intatta la partitura fanno di questa registrazione un disco di riferimento. Per chi volesse c'è anche un live ufficiale dello stesso anno con la Sills e la grandissima Tatiana Troyanos, in un repertorio certo a lei non congeniale, ma nel quale emerge in maniera grandiosa. Quando si parla di belcanto non si può non citare infine Marylin Horne, altra grande protagonista nella storia di questo titolo come di tanti altri. Dopodichè niente di rilevante, eccettuata la lettura di Riccardo Muti dell'84 che, chissà perchè, non ha avuto il coraggio (o l'opportunità) di incidere l'opera in studio... ci rimane un live ufficiale con la coppia Gruberova-Baltsa, con una Baltsa un po' troppo "bolsa" (se mi concedete il gioco di parole) e decisamente a disagio, oltre che un Muti al solito estremamente marziale nella direzione. Tralasciando le 2 registrazioni in studio della fine dei 90, salta fuori nel 2008 la sontuosa incisione con i Wiener Sinphoniker diretti da Luisi che vede in campo le due superbellissime dell'opera contemporanea: Anna Netrebko e Elina Garanca. L'incisione ha un suono bellissimo non c'è che dire, e le protagoniste sono anche dotate vocalmente se vogliamo, ma sembra mancare una certa verità a questo disco, ennessimo prodotto mainstream per i 2 astri nascenti della lirica-starsystem. Meglio la Garanca ad essere sinceri, anche se ad essa manca il piglio aggressivo e l'accento giusto nei passi d'agilità. Cosa dire poi della Netrebko? sfoggia il suo bel timbro uniforme, un po' troppo monocorde, filati quà e là, ma non tratteggia mai decisamente il personaggio, che risulta ancora più piatto di quel che già è. Un disco non disprezzabile ma abbastanza inerte quindi, alla lunga, tedioso.

DISCOGRAFIA CONSIGLIATA

Capuleti e Montecchi - Simionato, Hurley, Cassily, Gamson (LIVE 1958)
PRO: live storico della Simionato
CONTRO: resto del cast, tagli, suono live

Capuleti e Montecchi - Baker, Sills, Gedda, Patanè (STUDIO 1975)
PRO: integrale, le protagoniste
CONTRO: Gedda un po' appannato





sabato 19 settembre 2009

ESCLUSIVA: Intervista a Maria Dragoni


Prossima ai festeggiamenti dei suoi "primi" 25 anni di carriera gloriosa, noi di Qui la Voce abbiamo intervistato in esclusiva il grande soprano Maria Dragoni:

Il premio Maria Callas è stata una delle tue prime grandi affermazioni artistiche riconosciute. Giulietta Simionato, grande mezzosoprano e amica della Callas, disse in quell'occasione che tu incarnavi quella che era stata l’arte, la voce e lo spirito di Maria. Un ricordo di quel momento.

La vittoria del premio Callas, con le dichiarazioni della Simionato, mi lasciarono sconcertata, piu' che emozionata. Si verificò la stessa cosa al concorso Bellini nel 1981, il presidente di giuria era la Souliotis. Anche in quel caso si parlava della mia straordinaria somiglianza con la Divina: avevo solo 22 anni e cantai Casta diva diretta da Ottavio Ziino. In quell'occasione fu istituito per me un premio extra, piu' importante dello stesso premio Bellini (valeva di piu' anche in termini economici). Così mi fu assegnato il "Premio speciale Maria Callas".
In realtà tutto cominciò qualche anno prima, al primo saggio che feci in conservatorio a 17 anni, in cui cantai Micaela. Con la perentorietà con la quale espressi la frase "qui dei contrabbandier..." rivelai l'autorevolezza del mio modo di esporre il recitativo; così ascoltandomi in sala un regista tedesco voleva scritturarmi per un film al cinema su Norma. Comprai persino lo spartito, ma ero minorenne e la maestra mi vietò di farlo; peccato, oggi esisterebbe un film cinematografico della mia Norma a soli 17 anni. Il ruolo del mio destino, difatti il rimpianto maggiore che ho è il non essere riuscita a incidere Norma con Karajan nonostante avessi già firmato il contratto con Oldani padre, dato che il maestro morì quello stesso anno.



Hai fatto cenno a Norma, che è un ruolo molto difficile come tutti sanno, e che tu hai portato in scena tantissime volte nel corso di questi anni... come anche altri ruoli belliniani come Sonnambula e Pirata, altrettanto impegnativi...

Norma è un ruolo difficile per chi non ha la vocalità giusta, per me non lo è, come non lo sono le opere sopraelencate. Invece è difficile trovare un direttore capace di dirigerla (solo Muti ne è all'altezza), ma la cosa davvero grave è che non sanno allestire questa opera: ho visto solo regie orrende, tranne quella di Zeffirelli per la Callas, di cui purtroppo non abbiamo un video completo (un vero delitto!).

Hai parlato di vocalità... Indubbiamente la tua voce particolare si può definire "drammatico di agilità". Spesso i ruoli belliniani o del primo Verdi sono diventati repertorio d'elezione di cantanti con vocalità lirica che hanno sviluppato attitudini drammatiche o di soprani drammatici puri che però non potevano risolvere i passi fioriti o d'agilità in maniera soddisfacente. Perché è così difficile oggi trovare una voce di soprano drammatico d’agilità?

Per essere un drammatico d'agilità bisogna avere di base una voce drammatica; poi la volontà di studiare tanto per riuscire ad eseguire ruoli d'agilità, che ricordiamo furono scritti per voci drammatiche, e che solo in un secondo momento divennero appannaggio dei lirico-leggeri (i quali oggi, nuovamente, si azzardano addirittura ad eseguire Norma o Pirata. Un vero scempio).
E' in questo senso che sono considerata l'unica vera erede di Maria Callas, perchè ho seguito la sua linea, con voce di drammatico ho studiato come lei, nessun soprano autenticamente drammatico l'ha fatto, e oltretutto bisogna iniziare molto presto. Spero vi sia in futuro qualche soprano drammatico con la stessa volontà della Callas e mia; per ora siamo 2 casi isolati.

Il tuo repertorio in realtà è vastissimo e non si limita alla sola musica del primo 800 ma spazia da Mozart a Puccini. Quali sono i quattro personaggi che meglio rappresentano la tua personalità?

Il mio repertorio spazia proprio perchè alla natura ho aggiunto un lungo studio.
Inutile dire che tra i personaggi adatti a me i 4 principali sono le protagoniste delle opere Norma, Turandot, Macbeth e Nabucco.
In pratica i 4 cavalli di battaglia di Gina Cigna. Proprio lei mi indicava come sua erede, anche se la mia tecnica piu agguerrita mi ha consentito di affrontare anche ruoli come Lucia, Amina, Puritani ecc.

Grandissima soprano drammatico del primo dopoguerra con la quale, lo ricordiamo, hai anche studiato la Turandot... Continuando a parlare di cantanti del passato, quali sono i nomi del passato (ma anche del presente) che apprezzi maggiormente?

Amo Caruso, la Ponselle, Schaliapin, la Callas e Di Stefano, poi la Simionato.
Oggi? Apprezzo il modo intelligente di fare arte della Dessì, la brava Desirèe Rancatore nel suo repertorio, poi la fluviale voce del gigantesco Nicola Alaimo, Simone Alaimo(lo zio) e il suo modo di essere artista che da sempre lo contraddistingue, come apprezzo in alcune opere lo stile della Frittoli e della Antonacci... scusa, ma non mi viene in mente altro ora.

Il mondo dell'opera, visto che abbiamo parlato di colleghi, si dice essere pieno di invidie e di ipocrisie. Il rapporto tra colleghi, siano cantanti o direttori, è sempre facile o ci sono casi in cui si creano attriti tra voi?

Delle invidie o ipocrisie non mi son mai curata, neanche ci ho fatto caso. Non ho mai avuto attriti con colleghi, i quali mi ammirano tutti, intanto per come sono, poi per come canto, in genere sono felici ed onorati di cantare con me, e questo permette a me e a loro di rendere al meglio.

E con i direttori? Leggo nel tuo curriculum che hai lavorato con Mehta, Abbado, Muti, Giulini, Oren, Maazel...le più prestigiose bacchette. Con quali di loro ti sei trovata artisticamente e umanamente più a tuo agio?

Inutile dire che solo Muti mi ha riservato la massima considerazione: appena si insediò alla Scala nel 1986 mi fece debuttare, poi venne spesso ad ascoltarmi, mi invitò a casa sua a Ravenna, mi ha sempre trattata come una persona di casa, così come hanno fatto la moglie e la bellissima figlia Chiara, grande attrice. Per me Muti è il piu' grande, gli altri passano in secondo piano, tutti, compreso Giulini, ma alla fine mi sono trovata bene con tutti. Un mio punto forte è sempre stato l'estrema musicalità, fin dall'epoca del conservatorio (dove non a caso mi diplomai con 10 in solfeggio).

Tornando a parlare dei tuoi ruoli, la tua carriera vede anche delle prime assolute: momento di grande importanza storica oltrechè artistica è stata la ripresa moderna a te affidata dell'Ines de Castro di Persiani, operazione musical-culturale che ha richiamato più di 50 critici da tutto il mondo. Come ti sei sentita nel prendere parte come protagonista a questo evento?

Ines de Castro mi diede la possibilità, come scrisse Gualerzi, di far conoscere la radiografia della struttura vocale della Malibran in un'opera che fu scritta da un autore minore ma proprio a tale scopo; tuttavia trovo comunque molto affascinante la musica descrittiva di Persiani in questa opera. Mioli scrisse sulla rivista L'Opera: "Eroica la Dragoni che dopo tante ricerche ci ha fatto capire finalmente cosa fosse il canto di bravura ottocentesco del quale ha dimostrato di conoscere ogni regola dello stile." Così si espressero i vari critici nel mondo, definendomi l'unica che poteva riesumare tale opera. L'aria piu semplice poi, "Cari giorni", è stata incisa dalla Bartoli in un cd dedicato alla Malibran.

A tal proposito, ultimamente molti cantanti fanno parte dello star-system operistico senza avere, per noi, i requisiti dell'artista vero e proprio. Cosa ne pensi? Sei mai stata vittima delle dinamiche commerciali alle quali è ormai da tempo soggetto il mondo della lirica?

Già la parola star-system non c'entra nulla con la musica, che è un’arte antica, e il grande Uto Ughi lo ha ampiamente dimostrato; infatti è un sistema che ha fallito in pieno ed ora presenta i suoi ultimi strascichi. Alcune esperienze: avevo firmato il contratto per incidere Il Trovatore con Muti ed ero già a Londra. Quelli della Emi erano entusiasti di me, poi arrivò il tenore e cancellarono il cd; dissero: "sta per uscire il Trovatore della Decca con Pavarotti e la Banaudi, e il tenore non può competere con Pavarotti."La mia carriera è costellata di episodi simili.

Come pure ho sofferto la grave ingiustizia dello strapotere americano. Cosi fu per Vestale e Norma; la stampa annunciò: ”è l'anno della Dragoni, che inaugurerà due teatri con Muti (Scala e Ravenna) con due opere importanti: Vestale e Norma"; poi alla Scala, dopo un mese di prove con la Cavani, arrivò una americana imposta dallo star-system, la quale fu poi sommersa di fischi e stroncata dalla critica. Non cantò mai piu', ma alla fine, anche se quando cantai io ebbi il pubblico in delirio e la stampa importante a mio favore, nel dvd Emi c'è l'americana, tanto con i mezzi di oggi simulare applausi ed eliminare i fischi è un gioco da ragazzi. Ancora a Taormina, dovevo cantare io Norma in mondovisione il 23 e alla fine mi ha scavalcato June Anderson, di 10 anni piu' grande di me e che mai ha convinto in Norma (quando io, dall'età di 25 anni, ho cantato ben 115 recite in quel ruolo).



Dai tuoi esordi sono passati altri 25 anni, fatti di una carriera invidiabile in grandi teatri e in un repertorio importante. Senti ancora di non aver fatto tutto quello che potevi e volevi? quale sfida artistica saresti felice di raccogliere oggi?

Dopo 25 anni oggi, oltre alla voce che avevo e che ho ancora adesso, ho l'esperienza e una maggiore sicurezza; come sempre vedremo cosa mi sarà chiesto, non amo la routine, non firmo contratti a lunga scadenza, soprattutto oggi che le cose cambiano di continuo.

Quali consigli daresti ad un giovane che sta per intraprendere una strada nel tuo mondo, quello di cantante lirico nel teatro d'opera.

Non do consigli teorici uguali per tutti, per quanto riguarda la voce ognuno è un caso a sè. Per il resto consiglio di studiare e di non distrarsi, di far diventare quando si studia il canto l'unica passione. Finchè si è in gioco bisogna essere seri ed etici, ma sono certa che le mie sono parole al vento.

A proposito di passioni... Chi è Maria fuori dal teatro? e che passioni ha oltre all'opera?

Maria fuori dal teatro è una persona normale e molto semplice, generosa... talvolta un po’ troppo.
Le passioni sono sempre l'arte, la pittura, la scultura, amo l'estetica e la natura, soprattutto il mare. Avendo cantato in oltre 120 città del mondo ho viaggiato tanto, e viaggiare rimane una mia grande passione.

Per chiudere, i tuoi impegni professionali futuri...

Cose sicure sono un concerto con musiche di Pergolesi a Napoli... poi altre cose, in opzione, tipo il debutto in Attila... ma siamo in settembre, ed arriveranno tanti altri lavori, come sempre.

Cara Maria, ti ringraziamo per la tua disponibilità insieme a chi avrà il piacere di leggere questa conversazione.

Sono io che vi ringrazio per le domande intelligenti.
Vi saluto con tanta stima ed affetto,
Maria Dragoni

(intervista a cura di Didier e Zizzu)

venerdì 17 luglio 2009

DISCOGRAFIE CRITICHE: Bellini e le sue Primedonne (Parte 1)



IL PIRATA E LA STRANIERA: i ruoli Méric-Lalande

Il Pirata è il primo lavoro davvero degno di nota di Bellini. Sebbene già rappresentato più volte in tempi moderni (addirittura ci fu un allestimento con Gigli all'inizio del secolo scorso), il vero revival dell'opera si ebbe con la Callas alla Scala, anno 1958. E la premiata ditta Callas-Corelli-Bastianini, che faranno 2 anni dopo faville col Poliuto donizettiano, dovevano rappresentare il cast ideale, ma non ci è dato purtroppo di ascoltare tale registrazione perchè, così sembra, "there's no Pirata" come disse lo stesso Corelli. Esiste la registrazione in forma di concerto di una Callas a New York che già evidenzia i primi segni di fatica vocale...lei comunque stratosferica, col dramma nel sangue, ma Ego e Ferraro non sono nè Bastianini nè Corelli. Se a questo si aggiunge che la partitura è, come consuetudine era all'epoca, pesantemente tagliata, Rescigno è onesto ma poco avvezzo alle finezze, il suono è da ripresa radiofonica anni 50, la Maria non basta a rendere leggendaria questa registrazione. La prima versione in studio è firmata invece da Montserrat Caballè, assieme a suo marito e al buon Cappuccilli. Non proprio un miracolo, ma una buonissima versione, specie che sul podio c'è Gavazzeni, più fine e meno scoppiettante di Rescigno, che almeno per una volta lascia la partitura quasi immune dalle mutilazioni cui il maestro era avvezzo.



La Caballè disegna una Imogene più fragile e tendenzialmente più belcantista in senso stretto (assecondando i suoi mezzi vocali), dove la Callas vedeva in Imogene una sorta di Norma ante-litteram (vedasi recitativo d'ingresso o caballetta finale), epurata quindi dei "fronzoli" retaggio dello stile di Rossini. La Callas infatti riteneva, per una sua visione personale del belcanto romantico, di dover ridurre al minimo indispensabile ogni forma di fioritura e di sfoggio virtuosistico in favore dell'espressione della tragicità del dramma. Visione che portò avanti strenuamente, alla quale si contrappose la nuova generazione (Sutherland e Caballè) restauratrice del belcanto in senso puramente vocale. Solo Leyla Gencer fece sua la personale visione di belcanto callasiano, e in questo (non certo per le qualità vocali, decisamente diverse) può essere considerata sua erede. Chi avesse maggiore ragione in termini stilistici non ci è dato saperlo, giacchè in questo specifico caso la prima Imogene della storia fu la Méric-Lalande, già grande primadonna rossiniana. E la scrittura infatti è alquanto rossiniana nonostante i cantabili siano già Bellini puro. Non siamo ancora quindi nel regno del "soprano Pasta", ma siamo altresì distanti dal "soprano Colbran". E a questo si aggiunga che la Méric-Lalande fu la prima Lucrezia Borgia, anche questo ruolo "a metà" cantato nell'ottocento non solo dai drammatici d'agilità ma anche dai lirici come la Grisi. Non stupisce quindi che la Borgia sia stato grande cavallo di battaglia della Caballè, ma altresì superbamente resa dalla Gencer, che ne dava una lettura più tragica ma non per questo meno pertinente. Tolto il fatto che la Scotto non ha mai affrontato il ruolo integralmente, negli anni 90 la nostrana Aliberti ha un po' monopolizzato questo personaggio, arrivando addirittura ad inciderlo nel 1994. Additata come la neo-callas (e non è nè la prima nè l'ultima), la signora Lucia, oltre ad un paio di note centrali un po' tubate, ha ben poco della Maria e questo non è detto che sia un difetto, ma in questo caso lo è. La sua lettura in studio è per me assolutamente da evitare. L'Aliberti canta spesso in una sorta di registro a mezza voce, tenue e coloraturistico, puntando tutto su una sua personale visione di belcanto (che tanto bello poi non è) sacrificando così l'accento drammatico. Meglio vanno le sue incisioni live. In tempi più recenti vale almeno la pena ancora di citare la Fleming del Metropolitan 2003, registrazione live ma di un broadcast (quindi ottima qualità audio). Reneè non è propriamente belcantista nata, ma riesce in più occasioni nell'impresa di essere credibile grazie ad un timbro suadente (talvolta troppo però) ed una tecnica non indifferente. Da brava americana talvolta le manca il gusto (indispensabile in questo repertorio) cosa che la fa miagolare come una gattina o ruggire come una pantera con note scoperte, caricate, di petto, o con portamenti, mezze voci e melensaggini assortite. Nel complesso però non è così deprecabile come certa critica ha decretato.


La Straniera è un opera ancora più sottovalutata, vuoi perchè non contiene pagine di forte rilievo come il Pirata, vuoi perchè la Callas la mancò per poco (e preferì in quell'occasione proprio il già citato Poliuto). Ancor meno quindi c'è da dire sulla discografia di questo titolo. Questa volta quindi la lezione la fà Renata Scotto in un disco dal vivo, vera artefice nel 1968 del revival di quest'opera, con l'ottimo Sanzogno sul podio, e il buon Cioni a fianco. E questo perchè se è vero che la prima Straniera fu ancora la Méric-Lalande, in quest'opera lo stile si fa ancora di più belliniano e meno rossiniano, il che favorisce maggiormente le voci liriche. Possiamo dire che questo è un ruolo Lalande di "seconda specie", maggiormente romantico-patetico rispetto all'Imogene de Il Pirata che possedeva già le caratteristiche del futuro drammatico d'agilità verdiano. Si palesa quindi già quel dualismo dei caratteri nelle voci femminili che troveremo anche nel "soprano Pasta". Quanto all'interpretazione della Scotto: il suo legato è perfetto, così come il fraseggio e la tenuta delle agilità. Non fosse ancora per qualche taglietto qua e là e, purtroppo, la qualità audio modesta da registrazione in house. Per chi a questo punto vuole ascoltare una buona Straniera e in buona qualità audio consiglio la Fleming del 1993. Opera più nelle sue corde rispetto al Pirata (per le ragioni già citate), affrontata in più fresche condizioni vocali. La Fleming non è la Scotto, ma anche in questo caso ne esce molto bene, e la aiutano nella complessiva riuscita la qualità buona del suono e l'integralità dell'opera. Taciamo la Caballè live, un po' troppo indulgente e approssimativa, e su una partitura martoriata dai tagli, e l'Aliberti (stesso discorso del Pirata) che ad alcuni piace molto ma non a chi scrive. Per chi volesse una chicca, come curiosità, c'è anche un live del 1971 della Souliotis (altra epigona callasiana, questa per ammissione della stessa Maria), ormai già declinante. Giusto a sottolineare ulteriormente quale peso vocale, a prescindere dal carattere più lirico o drammatico, dovrebbero avere i ruoli belliniani per voce di soprano.
Zizzu


DISCOGRAFIA CONSIGLIATA

Il Pirata - Callas, Ferraro, Ego, Rescigno (LIVE 1959)
PRO: live storico della Callas
CONTRO: tagli, resto del cast non sempre all'altezza, suono live

Il Pirata - Caballè, Martì, Cappuccilli, Gavazzeni (STUDIO 1970)
PRO: edizione quasi integrale, livello generale del cast
CONTRO: Martì, Caballè non sempre a fuoco

La Straniera - Scotto, Cioni, Campi, Sanzogno (LIVE 1968)
PRO: live storico della Scotto
CONTRO: tagli, suono live

La Straniera - Fleming, Kunde, Le Bron, Queler (LIVE 1993)
PRO: integrale, suono molto buono (broadcast), la Fleming
CONTRO: cast non sempre all'altezza, Fleming non sempre a fuoco






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